giovedì 30 marzo 2017

Le cose sospese.





Da piccolo avevo il sonno leggero, così mi addormentavo tardi per non svegliarmi in mezzo alla notte.
Quando mi infilavo sotto le coperte non chiudevo la porta, lasciavo che luci e rumori dei miei ancora alzati filtrassero dallo spiraglio. Era un’attesa che mi faceva compagnia: aspettavo che tutto si spegnesse, finché non mi rassegnavo che le scuse erano finite e dovevo dormire.
Mi voltavo, spalle alla porta e chiudevo gli occhi.
Si addormentavano con me piccole agonie: casini tra coetanei, strazianti amori non corrisposti, screzi familiari, film di paura che vedevo da solo in soggiorno, in bianco e nero.
Mi proteggeva la presenza di mio fratello e un rumore che faceva uno dei cardini della porta.
Non era proprio un cigolio.
Quando si muoveva uscivano netti ticchettii, come quelli del pesante orologio di metallo che avevano i nonni sulla madia.
Nella notte vuota si distinguevano bene e per un sonno come il mio era un allarme perfetto.
Mio padre andava al lavoro presto, che era ancora buio.
Tutte le mattine prima di uscire di casa, si affacciava per salutarci.
Non diceva niente, non faceva rumore. Si affacciava e basta.
Alla stessa ora, ogni giorno, il cardine ticchettava e dopo alcuni minuti il portone d’ingresso si chiudeva piano alle sue spalle.
Spesso mi svegliavo a quel ticchettio, e sapevo che in quel momento mio padre faceva capolino.
Non mi sono mai voltato per ricambiare quel saluto.
Non l’ho mai fatto perché ero certo che se si fosse accorto di avermi svegliato avrebbe smesso di affacciarsi.
Oggi quando esco presto di casa faccio lo stesso con le mie figlie.
Un po’ mi spiace pensare che forse non lo sapranno mai, ma certe cose devono rimanere sospese per essere importanti.
L’altra sera ero a casa dei miei e prima di andarmene ho scostato la porta di camera di mio padre, quella dove dormivo io.
Il cardine non fa più rumore.
Era di spalle.
L’ho osservato senza che si voltasse. Ho atteso un istante finché l’istante non è diventato troppo lungo da farmi male.
Poi sono uscito e ho chiuso piano il portone alle mie spalle.
A volte rimangono sospese anche le cose che rifiuti di accettare.

venerdì 17 marzo 2017

La felicità



Sono in auto e aspetto che mia figlia esca da scuola.
Dall’angolo opposto della strada sbuca una giovane donna che tiene davanti a sé una grossa cartella di plastica, la tiene con entrambe le mani, come fosse un cuscino.
È felice.
Lo capisco perché sorride, lo fa ogni muscolo del suo viso. Mentre cammina la testa tentenna al ritmo dei suoi passi, e fissandola mi accorgo che la felicità le sgorga proprio fuori, come se fosse fisica, come quando corri tenendo l’acqua con le mani.
Molte delle nostre emozioni, quando sono intense, diventano fisiche ed escono dal nostro corpo sotto forma di gocce.
A volte ci danno persino fastidio.
Mi immagino che forse ha appena baciato il suo amore, oppure ha consegnato un ottimo lavoro…
La guardo e sorrido a mia volta.
E sono felice.
Mi sembra di essere la formica invischiata nella goccia di resina.
È incredibile come sia riuscita a trasmettermi il suo stato d’animo.
È incredibile come sia possibile rendersi così felici senza neppure conoscersi.