Ieri sera guardavo le mie figlie dormire.
Da un po’ di tempo ho scoperto quanto è bello fermarsi e fare finta di vedersi da fuori, scendere in un fermo immagine e studiare quei dettagli intorno a noi che altrimenti sfuggono allo scorrere di uno sguardo distratto.
La piccola tiene in mano qualcosa che nella veglia non ha fatto in tempo a posare. Qualunque cosa sia potrebbe servirle nel mondo del sogno: non è sempre un posto sicuro quello.
La grande invece ha la fronte corrugata, come quando si cerca di capire qualcosa che non è chiaro.
La loro stanza.
Le spugnate arancioni sul muro lasciano spazio a qualche baffo di cemento e mi accorgo di quanti posters devo essermi perso in questi anni; almeno tanti quanti sono i residui di nastro adesivo che brillano con la luce notturna.
L’armadietto bianco che non ho mai visto chiuso del tutto, pieno delle cose a cui tengono, la prima stiva dei loro ricordi.
Le Converse.
Che la notte sembrano fare una lotta politica tra destra e sinistra, oppure sono ubriache della giornata trascorsa, e si sbattono a terra senza riuscire nella loro elementare funzione di stare in piedi.
Mi torna in mente quando erano piccoline e le facevo camminare e danzare sulla punta delle mie scarpe, senza arrivare mai da nessuna parte se non in volo ridente (che radente riesce a tutti).
Poi ci sono io.
Ma quando nel mio viaggio immaginario incontro la mia figura, distolgo sempre lo sguardo.
Di me riesco solo a capire che quelle camminate sulle punte non finiscono mica da piccole.
Loro si fanno grandi e fare voli ridenti è sempre più difficile, ma un passaggio, su quello potranno sempre contare, e un giro di danza col babbo diventa un gala.
Ci vedo danzare con leggerezza e la sola cosa che riesco a guardare della mia figura mi fa sorridere.
Non erano mica loro adesso che stavano sulle punte.
Ero io che mi facevo un giro sulle loro.
Le spugnate arancioni sul muro lasciano spazio a qualche baffo di cemento e mi accorgo di quanti posters devo essermi perso in questi anni; almeno tanti quanti sono i residui di nastro adesivo che brillano con la luce notturna.
L’armadietto bianco che non ho mai visto chiuso del tutto, pieno delle cose a cui tengono, la prima stiva dei loro ricordi.
Le Converse.
Che la notte sembrano fare una lotta politica tra destra e sinistra, oppure sono ubriache della giornata trascorsa, e si sbattono a terra senza riuscire nella loro elementare funzione di stare in piedi.
Mi torna in mente quando erano piccoline e le facevo camminare e danzare sulla punta delle mie scarpe, senza arrivare mai da nessuna parte se non in volo ridente (che radente riesce a tutti).
Poi ci sono io.
Ma quando nel mio viaggio immaginario incontro la mia figura, distolgo sempre lo sguardo.
Di me riesco solo a capire che quelle camminate sulle punte non finiscono mica da piccole.
Loro si fanno grandi e fare voli ridenti è sempre più difficile, ma un passaggio, su quello potranno sempre contare, e un giro di danza col babbo diventa un gala.
Ci vedo danzare con leggerezza e la sola cosa che riesco a guardare della mia figura mi fa sorridere.
Non erano mica loro adesso che stavano sulle punte.
Ero io che mi facevo un giro sulle loro.