domenica 15 maggio 2011

Lo vorrei davvero, davvero.

Allora, pensi di saper distinguere
il paradiso dall'inferno?
I cieli azzurri dal dolore?
Sai distinguere un campo verde
da una fredda rotaia d'acciaio?
Un sorriso da un pretesto?
Pensi di saperli distinguere?
Ti hanno portato a barattare i tuoi eroi per dei fantasmi?
Ceneri calde con gli alberi?
Aria calda con brezza fresca?
Un freddo benessere con un cambiamento?
e hai scambiato un ruolo di comparsa nella guerra
con il ruolo da protagonista in una gabbia?
Come vorrei, come vorrei che fossi qui
Siamo solo due anime sperdute
Che nuotano in una boccia di pesci
Anno dopo anno
Corriamo sullo stesso vecchio terreno
E cosa abbiamo trovato?
Le solite vecchie paure
Vorrei che fossi qui


E' la troduzione pescata su Google di questa bella cosa qui sotto.





Salutami Sandman, Roberto, ovunque tu sia.



sabato 7 maggio 2011

Racconto - Short 03 - Il fantasma di plastica




RACCONTO


La costruzione del castello era quasi conclusa. Le mura, con feritoie, finestre e merli erano a posto; dovevano essere coperti alcuni alloggi e per l’accesso alle prigioni sotterranee si doveva trovare una porta adeguata.
Daniel era fiero della sua costruzione ma gli bastò gettare lo sguardo verso la torre maestra per ritrovare quel senso di inquietudine che quella particolare zona gli destava: non avrebbe trovato il coraggio di completare il modellino prima di Natale!
Era un regalo e ci teneva troppo a consegnarlo in tempo.
Daniel si alzò dalla sedia, spense la fortissima luce del faretto focalizzata sul tavolo.
Uscì lentamente ad occhi chiusi, l’ansia che lo assaliva: un rito consolidato.
Cercando di non pensare a cosa stava accadendo dietro di lui, chiuse la porta senza voltarsi e si avviò in cucina.

Un caro amico di Daniel era psichiatra.
C’era una tacita promessa tra i due: quando uscivano non dovevano parlare di lavoro.
Quella sera al pub, la regola s’infranse… ma Harry capì.

Vicino di casa di Daniel fino all’età del liceo, si era poi trasferito. Solo dopo l’università era tornato nella città natale per fare pratica in uno studio psichiatrico. Lì avrebbe continuato ad esercitare anche dopo l’apprendistato. Ritrovandosi per caso, i due erano tornai gli amici di un tempo: uscivano con le ragazze e talvolta si prendevano qualche serata “per uomini”, specie in concomitanza di qualche grande evento sportivo.

Prima di entrare nel delicato discorso, i due parlarono dei bei tempi andati, dell’imminente capodanno da trascorrere insieme, dell’epifania in montagna… poi fu Harry a sbattere il problema sul tavolo.
Chiese a Daniel di essere sincero e disposto a parlargli di ogni più piccolo problema, anche di natura personale o familiare. Solo con un’assoluta fiducia Harry avrebbe potuto essere certo di raccogliere le giuste informazioni.
Daniel non perse tempo e dopo aver vuotato il bicchiere rivelò al suo amico di avere a che fare con un fantasma.

Harry senza neppure accorgersene, sgranò gli occhi ma Daniel cercò di anticipare le sue impressioni, mostrandosi aperto a tutte le diagnosi.
Sapeva benissimo che un’affermazione simile era da pazzi ma preferiva non girare intorno all’argomento.

Vedeva un fantasma in camera sua, dentro un modellino che stava costruendo. Che fosse vero o semplicemente frutto della sua mente che stava vacillando, lo doveva stabilire il suo amico.

Quello non era il posto giusto per parlarne: troppa gente.
La prima seduta si svolse nell’auto del dottore.

Da oltre un mese, non appena Daniel spegneva la luce sul tavolo in camera sua, un’altra fievole luminescenza si faceva attrice nell’oscurità. Proveniva dalla torre maestra di un castello in scala, acquistato ad un mercatino delle pulci.
Le prime volte pensò a un difetto della vista. La sera aveva spesso gli occhi stanchi e quella passione per il modellismo non lo aiutava.
Fu dopo aver assemblato i componenti strutturali che lo vide la prima volta.
In mezzo a quella impercettibile, sfocata luce comparve… una figura umana che lo fissava.

Non definita ma come il soggetto di una foto scattata in movimento.
Era certo un parto della sua mente ma sostituì la lampada che illuminava il suo lavoro con un forte faretto, così da anestetizzare quella visione.
La sua paura più grande era che quella visione fosse dovuta ad un cattivo presentimento, ad un’imminente tragedia.

L’amico ebbe il sopravvento sul dottore, almeno per quella prima seduta. Escluse la pazzia; una spiegazione c’era, a volte la stanchezza e lo stress fanno brutti scherzi.
Si salutarono.
Il giorno dopo l’agenda di Harry era piena zeppa ma avrebbe rinunciato alla pausa pranzo pur di aiutare l’amico in difficoltà.

Per tutto il mese lo psichiatra cercò una soluzione. Non volle che l’amico smettesse di lavorare al suo Hobby: era come fuggire dal problema.
Un problema che però non lo mollava.
Alla fine escluse che Daniel fosse pazzo e tradusse il suo stato con un forte disagio emotivo, dovuto a un sovraccarico di impegni e problemi quotidiani che volle provare a sedare con una lieve cura di psicofarmaci.

La notizia gli fu data dieci giorni dopo dal padre.
Una tragedia.
Dalla finestra.

Harry non si dava pace per la morte di Daniel. Era certo di aver fallito con lui, non riuscendo ad evitarne il suicidio.

Mentre insieme ai familiari seguiva a piedi il carro funebre, complice l’ovattata connessione col mondo, ripensò a un’ossessione che l’amico gli aveva rivelato: quel fantasma lo poteva vedere solo lui, perché stava per morire.
Dall’istante che aveva fatto sua questa certezza, era cominciato il vero decadimento, l’ossessione degenerante che lo aveva portato a quel gesto assurdo.

Passarono inerti le festività.
Harry stava subendo un po’ di TV, senza riuscire a smettere di pensare al suo amico scomparso.
La luce bassa della piantana lo rilassava. Il fioco riverbero giallo lo cullava per l’imminente notte.
Lo distolse il campanello.
Dalla porta d’ingresso apparvero i genitori di Daniel, ancora affranti e con un sacchetto in mano.
Parlò il padre.
Sua moglie riusciva a stento a soffocare i singhiozzi del suo dolore.
Il genitore porse la busta: era un regalo.
Mentre il dottore lo apriva, la donna trovò la forza di confessare che il dono era da parte di Daniel, lo aveva comperato apposta per lui.
Non aveva fatto in tempo a consegnarlo.
Harry stracciò velocemente la carta regalo.
Ne uscì il modellino.
Il castello.
Per poco le sue mani non lo lasciarono cadere.

I due ospiti si ritirarono velocemente, salutando e ringraziando il padrone di casa per quanto era stato vicino al figlio.

Harry chiuse la porta e il suo sguardo piombò sulla torre maestra del castello.
All’interno di una fievole aurea di luce, vide due figure umane che lo fissavano...
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Marco Frosali

N.B. Vietata ogni riproduzione anche parziale senza la citazione del nome dell’autore.

martedì 3 maggio 2011

Racconto - Short 02 - IOprimopscreen.jpg

RACCONTO

Appena sveglio si ricordò che quella mattina sarebbe stata una delle migliori degli ultimi tempi.
Il pomeriggio precedente aveva acquistato il nuovo computer; entro un’ora il tecnico sarebbe venuto ad installarlo.
La stessa cifra spesa per cenare in un ristorante decente, sarebbe servita per far allestire la sua nuova meraviglia tecnologica da mani esperte.
Si dispiaceva di non poter assemblare da solo il PC ma non era pratico in certi lavori, temeva di rovinare qualcosa e avere comunque bisogno di assistenza... per lui, dietro a quel genere di lavoro c’era un po’ di magia.
Non riusciva (e forse non voleva) capire fino in fondo; preferiva credere che dietro a tanta fredda tecnologia, potesse nascondersi qualcosa di misterioso.

Salutato il tecnico iniziò a muovere i primi passi nel nuovo software.
I programmi li sapeva installare da solo. Ne aveva di tutti i generi. Molti acquistati in previsione del nuovo computer.
Quello appena sostituito era così obsoleto da non venire nemmeno citato nei requisiti minimi di sistema dei software.
I giorni successivi lo videro fare le ore piccole davanti al video. Era fiero di aver condotto a buon fine la connessione WiFi.
Navigava spesso.
Il tempo trascorso in chat e forum era pari a quello che avrebbe potuto spendere in locali da ballo o pub se solo avesse voluto andarci… ma era un solitario e preferiva non interagire troppo con persone in carne e ossa (in realtà non aveva una grande disponibilità di amicizie, tale da permettergli di divertirsi in certi luoghi).
Ormai si era convinto che il computer fosse il suo più grande amico. Gli offriva la possibilità di conoscere una miriade di persone che erano disposte al dialogo senza compromessi.
Ultimo tocco: uno sfondo.
Ne disponeva un numero illimitato ma fu l’ego ad avere la meglio: inserì un suo primo piano, a cui avevano fatto i complimenti persino alcune ragazze!
Nato per essere provvisorio, sarebbe divenuto poi quello definitivo; non tanto per l’intenzione di lasciarlo, quanto per il fatto che si dimenticava di cambiarlo.

Aveva un grande difetto il nostro amico. Se nella vita reale mai avrebbe pensato di imporsi o scontrarsi con qualcuno, nella sua vita sociale virtuale era molto più volitivo, tanto da avviare alcune interessanti discussioni, senza risparmiare critiche o pesanti dichiarazioni.
Nella vita, comportandosi in questo modo, ci si fanno spesso dei nemici… anche nella rete!
I giorni passavano e il suo PC vedeva pericolosamente diminuire i Gigabyte liberi sull’Hard Disk.
A forza di comprimere, archiviare e masterizzare file su CD, non sapeva più nemmeno lui bene tutto quello di cui disponeva nell’hard disk.
Non riusciva a gettare via niente. Salvava tutto, evitava di cestinare file anche se sapeva che non gli sarebbero serviti.

Era abituato al suo faccione che capeggiava sullo sfondo dello schermo.
Le icone sul desktop erano sistemate sul suo volto, ridisegnandolo in uno stile “pop-art informatico”: l’immagine era indistinguibile.
Solo dopo qualche settimana, notò che qualcosa era cambiato.
Sistemando quel caos sullo schermo, quando la foto del suo volto fu libera, qualcosa catturò la sua attenzione.
Spense la luce per non avere contrasti e si avvicinò allo schermo.

L’immagine del suo primo piano sembrava diversa.
Non riusciva più a trovare il file originale (aveva scattato quella foto in digitale; quindi non esisteva materiale cartaceo) e disponeva solo di quello salvato nelle impostazioni dello sfondo. Aprì l’immagine a tutto schermo e la osservò attentamente… si era certamente sbagliato… e poi le proprietà del file non indicavano nessun aggiornamento rispetto alla sua creazione.
La sera aveva già scordato quest'inezia. Decise di cambiare e passò a un panorama marziano; una di quelle foto scattate al pianeta rosso dai Rover in missione.

Dopo qualche mese si dedicò a una nuova pulizia e decise di cambiare immagine … scoprì di avere ancora in memoria la foto del suo primo piano.
La inserì sul desktop.
Adesso era certo che qualcosa non andava; stampò l’immagine e corse allo specchio… sembrava leggermente diverso da come lui si vedeva.
Gettò la stampa nel cestino e corse a cambiare sfondo: gli dava un’angoscia incredibile. Sorrideva per come si sentiva ridicolo a provare quelle sensazioni.

Nei mesi successivi la sua vita corse su un binario incredibilmente dritto. L’unica cosa che cambiava era il rapporto con gli utenti di forum e chat. Con un paio era davvero alle corde. Alcuni lo avevano pure minacciato ma lui era certo che non lo avrebbero trovato e si curava di mantenere il massimo riserbo della sua identità, divertendosi a giocare in incognito e imbastendo discussioni sui contenuti delle quali nemmeno era convinto... era irriconoscibile nel suo ruolo di “navigatore”!

Dopo l’estate, in seguito a due settimane trascorse in montagna, si mise a dare un nuovo aspetto al PC. Era una prassi che si ripeteva ormai semestralmente.
Si imbatté nuovamente nella sua faccia. Si sentì quasi sciocco per l’impressione che gli fece trovarsi di fronte quell’immagine.
Decise di eliminare completamente il file così da non vederlo più, nemmeno per sbaglio; prima però ne fece una stampa.
Provò a fare un nuovo confronto con lo specchio ma la foto era ormai vecchia di un anno e qualche differenza doveva pur esserci… solo che la ricordava venuta meglio.
Mise quella stampa da parte.

Passarono i mesi, molti mesi.
Dopo due anni di onesto lavoro, il suo PC ebbe bisogno di un potenziamento di Ram, Hard Disk e un aggiornamento dei programmi.
Chiese aiuto al tecnico installatore che, dietro a una sua precisa richiesta, non resettò il sistema ma si limitò ad aggiornarlo.
Ripreso possesso della macchina, si dedicò per un’intera giornata a personalizzare nuovamente il PC.
Da un angolo recondito di una cartella di sistema, spuntò fuori un file che lo fece ammutolire: “IOprimopscreen.jpg”
Non aveva il coraggio di aprirlo… poi l’indice cliccò quasi involontariamente sul mouse e si aprì l’immagine che per mesi era stato lo sfondo del suo desktop. Adesso vedeva bene che quella foto era diversa. Ne fece una nuova stampa e la confrontò con quella che mesi prima aveva archiviato… era come invecchiata! Tra le due foto si distingueva chiaramente un invecchiamento e un leggero ingrassamento… eppure lui non era oggi messo così male come nell’ultima immagine…
Avrebbe trovato ridicola quella situazione se solo non avesse riguardato lui.
Gli sembrava di vivere in un moderno “Ritratto di Dorian Gray”…

Negli ultimi due anni non si era mai ammalato; nessun capello bianco si era aggiunto a quelli che già aveva, non era ingrassato, pur vivendo da sedentario e mangiando schifezze con sregolatezza.
Era davvero turbato ma si sentiva anche sciocco a pensare che potesse accadere una cosa simile.
Non gli costava nulla tenere sotto controllo la situazione.
Da allora si fece puntualmente foto settimanali, utilizzando una vecchia macchina con pellicola, che avrebbe confrontato con quella digitale almeno ogni due mesi.

Non dovette attendere oltre il successivo bimestre per entrare davvero in una spirale di terrore: la foto contenuta nel PC era peggiorata mentre quelle scattate settimanalmente, tolte le ovvie differenze di pettinatura e espressione, corrispondevano al momento dello scatto.
Si ricordò poi di una foto di famiglia scattata il suo ultimo Natale felice, quello di qualche anno prima a casa di suo zio. Si precipitò a recuperarla dal parente. Tornato a casa confrontò la foto al PC con quella di famiglia che risalivano all’incirca allo stesso periodo.
Erano così differenti da lasciare senza fiato. Nell’ultima immagine stampata erano ben evidenti alcune rughe intorno agli occhi, i capelli molto più bianchi e radi, le guance appena calanti…
Spense il PC e si distese a letto… cercò di radunare un po’ le idee ma non riusciva a capirci niente.
Dopo alcuni giorni di black out, si decise a riaccendere il PC. Cancellò ancora l’immagine, aggiornò l’antivirus e provò a riavviare il sistema: non era cambiato niente; il file del suo volto era ricomparso.
Decise di abbandonare il PC. Formattò l’hard disk che rimase spento per alcuni mesi.

Era maledettamente solo. Vivere senza nemmeno poter parlare con le conoscenze virtuali, lo rendeva infelice. Si fece crescere la barba, cambiò pettinatura e la sua vita divenne fredda e vuota.
Il piccolo appartamento dove viveva era una specie di porcile. Sul terrazzo sostavano sempre almeno due o tre sacchi di spazzatura. Usava gli stessi vestiti per un’intera settimana e aveva smesso di stirarli. Sua madre soffriva di artrosi e da anni non andava a trovarlo. Era lui che si recava a casa dei suoi, solo per le feste comandate e in quelle occasioni si rassettava un po’.
Perse il lavoro.

Quest’ultimo fatto lo gettò in una disperazione totale.
Aveva bisogno di riemergere, di lasciarsi alle spalle quell’incubo che non si era mai spiegato completamente ma da cui era rimasto così scosso.
Doveva esserci una spiegazione… e doveva trovarla!
Accese il computer e si ricordò che l’ultima volta aveva formattato il sistema. Reinstallò i programmi essenziali per potersi collegare in rete.
Aveva un messaggio, l’unico che gli era arrivato.
Conteneva un file allegato con un’estensione sconosciuta. Era senza oggetto e la firma del mittente era una sorta di codice… un virus? Non gli importava, preferiva rischiare.
Lo aprì.
Spalancò gli occhi fissando il video.
Era la sua immagine, quella che doveva essere scomparsa con tutto il contenuto del disco fisso.
La faccia era scavata, con gli zigomi ben evidenziati. Gli occhi bordati di nero, le labbra violacee. Le pupille paludose, gialle e spente. La testa quasi completamente calva e la pelle sciupata. Si alzò e cadde per terra, sbattendo la testa in uno spigolo del letto. Prima di svenire si gettò sul materasso e si lasciò andare.

Una settimana dopo i vigili del fuoco sfondarono la porta del piccolo appartamento. L’odore era pestilenziale. Il corpo giaceva privo di vita sul letto. Sopra il lenzuolo sporco erano seminate ciocche di capelli.
Il cadavere era così magro e sciupato come se l’uomo fosse stato gravemente malato.
Sul video acceso capeggiava il suo primo piano.
Il vigile osservò l’immagine: doveva risalire a diversi anni prima, tanto era in forma e in salute. Dette un’occhiata al computer… vuoto!
Escluso un file d’immagine, nel sistema non c’era nemmeno un byte! Prima di spegnere il computer, l’agente confrontò il ritratto sul video con il cadavere sul letto: come poteva ridursi così una persona! La magrezza non era data dalla morte, quel povero disperato doveva avere sofferto per mesi.
L’autopsia stabilì che era morto per arresto cardiaco in seguito a infarto ma che da tempo soffriva di un male incurabile.

Il suo male, da anni, si era come bloccato, senza più deteriorare il suo corpo.

Nessuno, nemmeno i loro creatori sanno bene cosa si celi dietro a circuiti stampati, chip e componenti elettroniche. Dove vanno a finire i file cancellati definitivamente? In un luogo misterioso del sistema, in una sorta di buco nero virtuale in cui forse si raccolgono i dati di ogni computer, una dimensione sconosciuta, nata da un innato istinto di sopravvivenza…
In fin dei conti il nome dello stato di un computer privo di ogni programma è “bios”… e non ha niente di elettronico, no?


Immagine tratta dal film "Dorian Gray"

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Marco Frosali

N.B. Vietata ogni riproduzione anche parziale senza la citazione del nome dell’autore.

domenica 1 maggio 2011

Racconto - Short 01 - Il collezionista di mamme

RACCONTO

“Ho cominciato a collezionare mamme circa tre anni fa.
Allora non era così difficile, potevo farlo con calma, senza che nessuno mi mettesse fretta. Poi è arrivata la notorietà e la fama mi ha rovinato.
Non sono abituato al successo … ad essere considerato.
Da piccolo, il massimo per me, era restare da solo a fissare per ore un angolo buio della casa paterna.
In quell’angolo, succedevano tutte le cose del mondo.
Poi mi portarono via e abbatterono la casa. Quell’angolo buio si è trasferito dentro di me e mi segue ovunque.
La sola cosa che resta del mio passato? Cinquant’anni di ricordi. Sono l’unica cosa che vorrei poter dimenticare e non posso.
Il resto, tutto il resto… posso facilmente eliminarlo”.

Edna cercava l’abbonamento del bus. Era certa di averlo con sé e riguardava continuamente nelle tasche e nel portafoglio, nella speranza che gli fosse sfuggito al controllo precedente.
Accadde all’improvviso, la mano le tappò la bocca e cadde in un profondo sonno. Sonno senza sogni. Sogni che non avrebbe più fatto.
Si svegliò nell’oscurità di una stanza. Era nuda dalla vita in giù, legata e imbavagliata. Non riusciva a vedere bene ma sentiva che con lei c’era qualcuno.
Dal lato opposto si aprirono due occhi.
Il bavaglio impedì al suo urlo di esplodere ma il mugolio che ne uscì ebbe comunque effetto.
Prima della paura, Edna provò pena per quello sguardo ma non ebbe tempo di razionalizzare questa sensazione.
“Mi vuoi bene mamma?”
La voce era bassa, suadente e piagnucolosa. Edna non riuscì a contenere un singhiozzante, nevrotico pianto.
Lui era confuso, intimidito. Si alzò rimanendo attaccato alla parete opposta. Era completamente nudo e il freddo del muro, oltre che sulla carne, entrò nell’anima .
“Ho detto… mi vuoi bene mamma?”
Il cervello di Edna era già altrove. Quella situazione paradossale, insostenibile, terrorizzante, la portava lontano da lì, a ripensare al suo mondo, alle cose belle che l’attendevano fuori, a suo marito che l’amava tanto, al bimbo che doveva andare a prendere all’asilo…
La mano le carezzò la guancia, tolse il fazzoletto che le serrava le labbra e una voce diversa da quella udita prima mugolò …
Prendimi con te mamma”.
Edna implorò, sussurrando, che non le facesse male.
Lui carezzò i capelli lunghi, neri e chiese, stavolta con decisione: “mi vuoi bene mamma?”
Edna non rispose e ricominciò a piangere.
Lui esplose in una furia bestiale. La manata che sbatté sul viso della donna, aveva già fatto grossi danni.
Lui cominciò a piangere e a colpirla, prima a mani nude e poi con tutto quello che gli capitava a tiro.
Il mondo di Edna finì quella sera.

Non aveva trovato sua madre, nemmeno questa volta.
Un carillon suonò per ore prima che lui si rivestisse.

Il luogo dell’omicidio, come al solito, era una casa isolata, vuota. La vittima, una giovane donna, picchiata a morte anche stavolta, anche stavolta non c’era stata violenza sessuale.
La donna era morta in seguito a forti percosse.
Il commissario si sfilò i guanti in lattice e li gettò per terra.
Chiuse gli occhi e, come gli capitava spesso di fare, cercò di immaginarsi la scena dell’omicidio, come in sogno.
L’assassino, un uomo dal volto in nero, effettua il suo rito su quella disgraziata… vede tutto, come se fosse stato lì.
Alla fine, quando l’ultimo alito di vita si leva dalla donna, l’assassino placa la sua violenza disumana, si volta e sembra fissarlo. E’ come se da quel volto nero lui potesse sentire lo sguardo del maledetto che lo osserva, immobile, freddo.
Si era scoperto quasi insensibile, ormai, alla visione di corpi martoriati. Il collega che lo aveva preceduto era andato in pensione al momento giusto e lui si era trovato a raccogliere la dura eredità del “collezionista di mamme”.
I profili psicologici a sua disposizione, stilati dagli esperti, non gli erano d’aiuto. L’assassino colpiva giovani donne apparentemente senza particolari che determinassero un movente. L’unico elemento comune alle vittime era il fatto di avere figli piuttosto piccoli . La modalità per uccidere era sempre la stessa. Sembrava più uno scatto d’ira che una premeditazione. Dai referti disponibili avevano stabilito che l’atto dell’assassino era riconducibile a omicidi seriali legati a complessi edipici.
In due anni però, si era reso conto che la verità assoluta non si può studiare ma apprendere lentamente a discapito, purtroppo, delle vittime.
Gli faceva rabbia avere a che fare con un serial killer. Era come una qualifica “professionale”: prima assassino, poi serial killer e infine “Collezionista di mamme”, un nome che lo rendeva unico. I media poi, andavano a nozze con quella definizione e gli sembrava quasi di fare un complimento al carnefice… che probabilmente nemmeno leggeva i giornali e ignorava di essere stato qualificato come in un thriller.
C’era una domanda che teneva timidamente nascosta nelle mente, per non sentirsi banale; la solita, che ogni volta racchiudeva diversi e profondi significati: “perché?”.

Mary lanciò un’occhiata alla vetrina. Aveva i capelli a posto, trent’anni e un vestito perfetto. Sorrise e si incamminò verso il futuro.
Lui attese il momento giusto e la fece sparire. Divenne il suo destino. Dentro una stanza la storia si ripeteva. Sussurri, grida, sangue e una dolce melodia, colonna sonora della tragedia.
Ancora una volta lui non trovò la mamma e il tempo di Mary rimase il passato.

Il commissario questa volta non entrò. Attese fuori i colleghi della scientifica che riscaldarono il brodo: omicidio, presumibilmente avvenuto in seguito a violente percosse. L’omicida si era allontanato a piedi, fino a far perdere le tracce, confuso tra la folla, tra la normalità che rende tutti uguali.

Fenix sorseggiava il caffè. Mangiò l’ultimo pasticcino e appena finito di leggere un articolo sul giornale guardò l’ora, trasalendo. Lasciò sul tavolo il denaro, attirando l’attenzione del barista con un gesto.
Il grande parcheggio del centro commerciale fu l’ultima cosa che vide prima di riaprire gli occhi nel buio di un capannone industriale.
Fenix capì di non avere speranza. Sapeva chi aveva di fronte e di non aver niente da perdere. Questo la rendeva abbastanza razionale da controllare le sue emozioni.
“Mi vuoi bene mamma?”
Silenzio tra le fredde mura prefabbricate.
Una lacrima le sciolse il trucco.
“Mamma… vuoi bene al tuo bambino?”
Le parole uscirono di bocca da sole, per istinto.
“S-sì, sì, ti voglio bene”.
Riuscì a piangere senza singhiozzare.
Lui rimase in silenzio per alcuni minuti poi…
“Tu sei la mia mamma… davvero?”
“Sì bambino mio”.
“Mamma… vuoi tenere per sempre con te il tuo bambino?”

Se qualcuno fosse passato di lì in quel momento non avrebbe sentito né grida né rumori di alcun genere. Il silenzio era assoluto e lui sentiva l’alluvione di sangue pulsare nelle tempie che pian piano si placava. Non avviò il carillon.
Sorrise, guardò la donna di vent’anni più giovane di lui e cominciò a piangere felice.
L’abbracciò.

Il commissario entrò nel capannone e sebbene fosse buio completo, sapeva bene cosa avrebbe trovato. L’odore del sangue era insopportabile.
Accese la luce e il suo sguardo si fermò sulla scena per pochi secondi. Abbastanza per non scordare più quell’istantanea.
La giovane donna era distesa per terra, aveva la pancia aperta. Da lì usciva di tutto. Il sangue aveva sostituito il colore del cemento.
Il volto della donna era piegato in un dolore eterno.
Lui si era ucciso.
Una morte terribile, lenta. Un’agonia insostenibile.
Era nudo, in posizione fetale e aveva cercato di infilarsi nel ventre della donna. Si era avvolto nelle interiora di lei; con un coltello si era aperto la pancia e ve ne aveva infilato un’estremità. Il sorriso sul suo volto era quanto di più terribile e tenero il commissario avesse mai visto. Un sorriso che non riusciva a riscattare il killer, nemmeno con sé stesso ma che era servito a dargli pace.
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©Marco Frosali

N.B. Vietata ogni riproduzione anche parziale senza la citazione del nome dell’autore.